L’indicatore di produttività del lavoro dell’Italia mostra ampi differenziali negativi, in livello e in dinamica, attribuiti “contabilmente” a scarse innovazioni di processo e/o organizzative. Tuttavia, ridotta dimensione di impresa, specializzazione settoriale tradizionale e la loro interazione sono caratteristiche strutturali che spiegano gran parte del gap.

 

di Fabio Pengo, Vice Presidente Fasi

Nel 2021 il Fasi ha istituito un proprio Centro Studi che supporta con analisi empiriche e metodo scientifico la governance nelle decisioni strategiche, quantificandone l’impatto a medio-lungo termine sulla sostenibilità economico-finanziaria del Fondo. La ricerca qui presentata è un esempio delle attività svolte dal Centro Studi Fasi.

La produttività, definita come il rapporto tra la produzione (output) e i fattori produttivi (input) entrambi espressi in quantità, serve a misurare la capacità di utilizzare in maniera efficiente le risorse. Le molteplici misure disponibili possono essere distinte in due gruppi: rispetto ad un singolo fattore produttivo (produttività parziale del lavoro e capitale); rispetto ad un sotto-insieme o alla totalità dei fattori della produzione (produttività multifattoriale o totale). Il livello e la dinamica sono gli aspetti più rilevanti. Quanto al livello, la produttività del lavoro reale misurata dal Pil per ora lavorata è risultata pari nel 2022 a 54,2 dollari a fronte di un valore medio dei G7 di 65,4. Il differenziale dell’Italia in termini di livello della produttività rispetto alla media G7 ammonta a 11 dollari per ora lavorata. Il divario in termini di dinamica nel periodo 1995-2022 ammonta a 1 punto percentuale, essendo il ritmo medio annuo dello 0,4% a fronte dell’1,4% nei G7. I gap in termini di livello e dinamica, chiariscono il perché il nostro paese abbia registrato negli ultimi 27 anni il tasso medio di crescita più basso in assoluto in ambito UE27 (0,7% a fronte dell’1,7% nella media europea). Il consuntivo del 2023, caratterizzato da un’occupazione da record (2,1% la variazione rispetto al 2022) e da un Pil piuttosto fiacco (0,9%) ha riproposto prepotentemente il problema della bassa produttività del lavoro dell’Italia con un decremento nel 2023 di -1,2% a seguito di un incremento del numero di occupati più intenso di quello del valore aggiunto. La produttività del lavoro è un fattore determinante non solo per la crescita economica ma anche per la competitività paese. Nel calcolo del CLUP (Costo del Lavoro per Unità di Prodotto) entra in gioco proprio la produttività: più alta (più bassa) la produttività del lavoro più basso (alto) il CLUP ovvero il costo del lavoro per unità di prodotto.

Nel periodo 1995-2022 l’Italia ha perso competitività ad un ritmo medio annuo del -1,9%, a sintesi di un costo del lavoro per persona occupata cresciuto mediamente del 1,9% annuo e di una produttività del lavoro per persona occupata stagnante (0% in media a fronte di 0,9% in UE27). L’approccio di contabilità della crescita (growth accounting) consente di scomporre il tasso di crescita della produttività nelle sue componenti chiave: l’intensità di capitale, ICT e non ICT, la total factor productivity (TFP). A chi attribuire dunque la responsabilità della bassa crescita della produttività italiana? Secondo i risultati contabili è il mancato il contributo del “residuo” che include progresso tecnico, innovazioni nei processi produttivi, nell’organizzazione del lavoro, nelle tecniche manageriali, nell’esperienza e nel livello di istruzione della forza lavoro, ma anche errori di misurazione (Grafico X). Tuttavia, un’analisi comparata approfondita dovrebbe considerare le caratteristiche peculiari del sistema produttivo italiano[1]: specializzazione settoriale in segmenti di mercato a basso valore aggiunto e a più lenta espansione; ridotta dimensione; interazione specializzazione/dimensione. Per recuperare il differenziale di produttività (72 mila euro contro 81 Francia, 93 Germania) le nostre imprese dovrebbero fare un salto dimensionale (11 addetti per impresa, 39 in Germania) e, contemporaneamente, riposizionarsi su prodotti e segmenti di mercato più elevati nella catena del valore. Ma siamo sicuri che questa trasformazione non impatti negativamente sul Made in Italy? E comunque è importante evidenziare che, nonostante l’impatto della bassa produttività, restiamo saldamente tra le sette maggiori economie mondiali.

[1] Secondo Istat, l’effetto della minore dimensione media delle imprese italiane spiega circa il 50% del differenziale e la specializzazione il 10%, il 30% deriva dall’interazione tra le due e il restante 10 dall’”effetto Paese”.