Esiste un fenomeno “migranti “ tutto interno all’Italia e riguarda oltre mezzo milione di malati che emigrano dalle regioni di residenza (quasi tutte del Sud) per andare a curarsi negli ospedali del Nord Italia. E’ un aspetto poco noto, con implicazioni economiche paradossali, che il giornalista Federico Fubini del Corriere della Sera, ha portato nei giorni scorsi all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale.

Ogni anno centinaia di migliaia di cittadini italiani si muovono dalla Sicilia, Calabria, Campania, per affrontare i cosiddetti “viaggi della speranza”, sostenendo il costo umano e finanziario, per farsi curare da malattie oncologiche o sottoporsi a operazioni chirurgiche che richiedono attrezzature tecnologicamente avanzate e professionisti preparati. Qualche giorno fa il Consiglio dei Ministri, dopo la visita in Calabria del Ministro della salute, Giulia Grillo, ha sciolto l’Azienda sanitaria di Reggio Calabria per infiltrazioni mafiose. Dalle carte sequestrate dai carabinieri, risultano bilanci inesistenti, gestione amministrativa a dir poco inefficiente, assunzioni di personale con trascorsi penali e debiti accumulati per 420 milioni di euro negli ultimi tre anni. Questo spiega, almeno in parte, perché chi ha bisogno di cure, è costretto a lasciare la regione e affrontare un calvario personale e familiare. Sì, perché, un altro aspetto di cui si parla poco, sono le spese che i parenti del malato ricoverato sono costretti a sopportare per stare vicino al congiunto affetto da tumore o altre malattie invalidanti. L’albergo, i pasti, i viaggi, sono costi vivi che possono prolungarsi nel tempo e non tutti hanno la disponibilità economica per sostenerli. Attorno ai grandi ospedali di Roma, Milano, Bologna, sono sorte delle “ case amiche”, perlopiù gestite da enti caritatevoli, che ospitano a prezzi quasi simbolici migliaia di familiari dei malati, spesso genitori che accompagnano il figlio che si deve operare, grazie alle donazioni e ai volontari. E’ una goccia nel mare dei bisogni, ma sempre meglio del niente che le strutture pubbliche sono in grado di offrire.

L’inefficienza e la disuguaglianza nella qualità dell’offerta sanitaria pubblica producono una radicata sfiducia verso le istituzioni. Gli ultimi dati disponibili, forniti dal Ministero della salute, riportano che un quarto dei calabresi e oltre un quinto dei siciliani si sono trasferiti altrove per trovare un letto in un ospedale di cui potessero fidarsi. In Lombardia, leader nell’industria della salute, più di un ricovero per malati acuti ogni dieci è di un residente di un’altra regione. Ma è nella cura dei tumori che l’esodo diventa una migrazione di massa. Nel 2016 si è trasferito fuori dalla regione più del 40% degli abitanti della Calabria che aveva bisogno di ricovero per una condizione acuta, il 19% degli abruzzesi e il 16% dei campani. All’estremità opposta, la Lombardia ha offerto il doppio dei ricoveri per tumore rispetto alla seconda regione più attiva (il Lazio) e il 16% dei malati venivano dal resto del Paese. Quasi nessun lombardo si trasferisce altrove per curarsi. In compenso, molte migliaia di siciliani, piemontesi, pugliesi, liguri e campani arrivano ogni anno a Milano con le loro famiglie per questo motivo.

L’aspetto, forse più inquietante e paradossale di questa “migrazione” interna, riguarda il fatto che per come è strutturata la sanità italiana, ogni regione di residenza del malato deve rimborsare il costo delle cure alla regione in cui lo stesso malato risulta ricoverato. Le cifre sono impressionanti: le compensazioni tra regioni per costi sanitari ammontano alla spaventosa cifra di 4,6 miliardi di euro, quasi il costo di una finanziaria. La Lombardia ha il saldo netto positivo notevolmente maggiore, perché riceve dalle altre diciannove amministrazioni sanitarie d’Italia poco più di 800 milioni di euro l’anno: un contributo decisivo ai bilanci dell’intero settore ospedaliero privato convenzionato di Milano che “produce” migliaia di posti di lavoro in più. La seconda maggiore beneficiaria è l’Emilia-Romagna, con trasferimenti netti positivi per più di 350 milioni l’anno dal resto del Paese (quasi un quarto delle chemio somministrate in Emilia-Romagna sono per non residenti). Terzo è il Veneto con 161 milioni netti di «compensazioni» dalle altre regioni.

Detto in altre parole: gli abitanti delle aree più povere del Paese pagano le tasse addizionali sanitarie alla regione di appartenenza perché poi i loro soldi “emigrano” verso le aree più ricche dell’Italia settentrionale.  Come ha, giustamente notato il giornalista Fubini, siamo alla presenza di una sorte di Robin Hood alla rovescia: si prelevano i soldi ai più disagiati per darli a quelli che stanno meglio.

Tutto questo per l’eterna disorganizzazione di questo nostro Paese in cui convivono eccellenze mondiali e sacche di arretratezza. Un Paese in cui non si riesce a trovare una qualità media disponibile per tutti i cittadini dalle Alpi ad Agrigento, con il risultato che aumenta la sfiducia nelle Istituzioni, non solo sanitarie, e in un futuro degno di essere vissuto.