Sessant’anni fa, Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo, diedero vita alla CEE, firmando il Trattato di Roma. Tutti e sei paesi fondatori uscivano da una guerra devastante, un conflitto mondiale che aveva lasciato sui terreni di battaglia, milioni di morti perlopiù giovani. Un’intera generazione era stata cancellata da massacri immani, bisognava ricostruire e dare una prospettiva al futuro di quanti erano rimasti. L’Istat (Istituto Centrale di Statistica), ha reso noto in questi giorni uno studio veramente imponente che va fatto conoscere: ha analizzato, in buona sostanza, l’Italia e l’Europa in questi 60 anni di convivenza, per poi estendere il confronto anche all’Unione Europea di oggi costituita da 28 paesi. Da quel lontano 1957 la struttura produttiva, come si evince dai dati, è cambiata radicalmente, ma, almeno fino al 2008, le economie dei sei paesi fondatori sono state convergenti: il potere d’acquisto pro-capite ha avuto una crescita impetuosa, e noi italiani abbiamo anche beneficiato della solidità delle economie più forti, in particolar modo di quella tedesca. L’irruzione sulla scena della crisi mondiale ci ha trascinato nel vortice negativo, dal crollo della domanda interna, al blocco degli stipendi, all’arresto dei consumi. A tutto questo si aggiunge, nel 2011, il “rischio Paese” dal quale, per certi aspetti, ci ha salvato l’export. Infatti, le imprese italiane più dinamiche, da quella manifatturiera alla meccatronica, si sono orientate verso i mercati esteri e negli ultimi cinque anni, è cominciata una faticosa ripresa che, seppur lontana dai nostri partner europei (il rapporto debito-pil è ancora a nostro sfavore),  consente di intravedere la famosa luce alla fine del tunnel.

Restiamo ancora fanalini di coda per quanto riguarda la ricerca e la disoccupazione, che rimane inchiodata intorno al 12% della forza lavoro (nel 1960 lo scarto era del 5%). In compenso le donne italiane guadagnano mediamente il 5% in meno degli uomini, ma la distanza rispetto all’UE è minore. In Germania, nel 2015, le donne hanno guadagnato il 22% in meno rispetto ai colleghi maschi. Siamo, invece, il Paese con il più alto numero di automobili: 61 ogni cento abitanti, contro i 54 dell’Europa. Il perché è evidente: non siamo messi bene con il trasporto pubblico. Altro dato preoccupante riguarda la denatalità, siamo i meno prolifici dalla metà degli anni ’60 e, negli ultimi due, la popolazione italiana sta addirittura diminuendo. Il dato positivo, rilevato dall’Istat, è che siamo passati dalla più alta mortalità infantile nel primo anno di vita a quella più bassa: 2,8 per mille contro il 3,4 della media europea. Altra notizia fantastica è che siamo il paese più longevo d’Europa e il secondo al mondo, questo grazie alla qualità del nostro sistema sanitario, all’attività di prevenzione e uno stile di vita più sano. Vorrei porre l’accento su quest’ultimo aspetto che emerge dalla meritoria indagine Istat: sono gli stessi tre principi alla base della costituzione del Fasi che da quarant’anni perseguiamo con rigore e impegno. Il supporto integrativo al Servizio Sanitario Nazionale, solidaristico e universalistico, che garantiamo ai nostri associati per le migliori cure possibili, la prevenzione con l’offerta di pacchetti di screening e diagnosi precoci a totale carico del Fasi, promuovendo la diffusione di buone pratiche cliniche e investendo risorse che, nel lungo periodo, si tradurrà in un risparmio di spesa per lo Stato e, come rileva l’Istat, in uno “stile di vita più sano”.

 

Marcello Garzia

Presidente Fasi